La Corte di Cassazione con la sentenza n. 12962/16, pubblicata oggi, conferma una sentenza della Corte di Appello di Roma – che era stata impugnata dal Procuratore Generale – con la quale è stata accolta la domanda di adozione di una minore proposta dalla partner della madre con questa stabilmente convivente.
I giudici della Suprema Corte, nel confermare l’adozione della coppia di donne omosessuali, hanno affermato che questa “non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice“. Inoltre, secondo la Cassazione, questa adozione “prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempreché, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore“.
La stepchild adoption quindi viene consentita proprio perché prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempre che, a seguito di una valutazione del caso concreto da parte del giudice, sia accertato che il rapporto genitoriale realizza effettivamente il preminente interesse del minore.
Ancora una volta il superiore benessere del minore, viene richiamato come parametro di riferimento a conferma del fatto che, trattandosi di una decisione, quale dichiarare un rapporto di filiazione, seppur artificiale, che incide direttamente e definitivamente su un minore, quest’ultimo deve essere tenuto in preminente considerazione. La nozione di superiore interesse del minore trova la propria fonte all’art. 3 della Convenzione dei Diritti del fanciullo ove viene esplicitato che “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”. Le Sezioni Unite hanno, invero, sottolineato che la preminenza dell’interesse del minore, sancita anche dagli artt. 3 e 20 della Convenzione di New York (ratificata con legge n. 176/1991), non solo rappresenta “il criterio guida cui deve uniformarsi ogni percorso decisionale relativo ai minori”, ma determina anche “sul piano logico e su quello giuridico, la sovraordinazione di tale interesse rispetto a tutti quelli astrattamente confliggenti con esso, ivi compresi quelli fondati sui desideri degli adottanti, recessivi rispetto al primo”.
La Cassazione, con questa pronuncia, innanzitutto conferma che la prassi, inaugurata dal Tribunale per i Minorenni di Roma, seguita poi anche dai Tribunali di Napoli e Torino, da prassi diventa diritto vivente a tutti gli effetti, ovvero mediante il parametro della lettera d) dell’art. 44 della legge n. 184/1983 con una valutazione “caso per caso” della situazione di ogni minore e con l’accertamento del perseguimento del suo superiore interesse come benessere psicofisico di un soggetto in formazione, diventa possibile dichiararlo in adozione al partner anche del proprio genitore anche in coppie gay conviventi stabilmente,.
La Corte, alla luce delle sentenze di merito richiamate, supera una propria decisione del 2013 con cui affermò che “l’adozione in casi particolari ha come presupposto uno “stato di abbandono” del minore e l’impossibilità di un “affidamento preadottivo” che implicava l’impossibilità di applicare tale previsione in casi, come quello in esame, in cui mancava l’abbandono. Inoltre va anche ricordato che, oltre che le sentenze di merito e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, è anche vero che la Consulta, con una pronuncia del 1999, aveva chiarito che la lettera d) si applica in via generale, anche quando non ricorrono le condizioni del primo comma dell’articolo 7 (cioè la dichiarazione dello stato di adottabilità) poiché, secondo la Consulta, il legislatore ha voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore ed i parenti o le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo la possibilità di un’adozione, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella “legittimante”, ma con presupposti necessariamente meno rigorosi di quest’ultima, al fine di realizzare gli interessi del minore.
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