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Data Aggiornamento: Aprile 2023

Risarcimento ridotto per chi non ricerca un nuovo impiego dopo il licenziamento.

La Corte d’Appello di Brescia, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 328 del 2 febbraio 2023 ha esteso al regime della “tutela reale piena”, proprio dei licenziamenti dichiarati nulli, il principio espresso dall’articolo 1227, comma 2, del Codice civile, in base al quale “il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.

La deduzione dell’aliunde percipiendum anche nel licenziamento ritorsivo

Nel caso specifico la Corte d’Appello era stata chiamata a pronunciarsi su un licenziamento ritorsivo e a definizione del giudizio, ha di fatto censurato il comportamento della lavoratrice ricorrente che non si era attivata per trovare un altro lavoro nelle more del giudizio ed anzi era rimasta a godere del trattamento NASPI per quasi due anni.

La Corte d’Appello ha stabilito che dalla misura del risarcimento del danno dovuto alla lavoratrice, il cui licenziamento veniva dichiarato nullo perché riconducibile un motivo ritorsivo determinante, doveva essere detratto il periodo in cui la lavoratrice avrebbe potuto essere impiegata in una occupazione alternativa se avesse effettivamente ricercato attivamente una ricollocazione professionale.

Nel caso di specie la Corte ha evidenziato l’inerzia sul punto da parte della ricorrente.

Secondo la Corte, se la lavoratrice non si è diligentemente attivata per cercare nuovamente un impiego a seguito del licenziamento ritorsivo, il risarcimento del danno non può ricomprendere tutte le mensilità fino al giorno della reintegrazione, ma deve essere limitato al periodo “ragionevolmente necessario” per trovare un altro posto di lavoro.

Quindi, con tale pronuncia si sanziona, di fatto, la colpevole inerzia della lavoratrice, e tale inerzia, in base ai principi esposti in sentenza, ha portato la Corte a ridurre l’indennità risarcitoria al periodo di tempo che, se la lavoratrice si fosse diligentemente attivata, sarebbe stato sufficiente per trovare una nuova occupazione lavorativa.

La Corte d’Appello ha dunque ritenuto di applicare a tale fattispecie il principio di cui all’art. 1227, comma. 2, cod. civ. rubricato “Concorso del fatto colposo del creditore” che statuisce che “il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”.

In particolare, la norma in esame impone al creditore di adottare una condotta attiva, espressione dell’obbligo generale di buona fede, diretta a limitare le conseguenze dell’altrui comportamento dannoso, intendendosi comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza richiesta, tutte quelle attività che “non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici”.

Del resto tale principio, spiega la Corte, aveva già trovato applicazione in caso di risarcimento del danno da illegittimo licenziamento (cfr. Cass. 16076/12; Cass. 8006/14), in altre ipotesi in cui il lavoratore non si era diligentemente attivato per reperire una nuova occupazione lavorativa.

Riformando la decisione del giudice di primo grado, quindi, la Corte d’Appello ha ritenuto il licenziamento ritorsivo e disposto, in applicazione del regime di tutela reale piena, la reintegrazione e il pagamento di un risarcimento pari a 18 mesi, escludendo il periodo ulteriore di inattività intervenuto prima della sentenza.

La Corte ha rimarcato che “un lasso di tempo di 18 mesi risulti nel caso di specie sufficiente per reperire una nuova occupazione”.

La decisione merita una doverosa segnalazione, in quanto applica il concetto dell’aliunde percipiendum al regime sanzionatorio del licenziamento nullo.

In questo ambito, la disciplina di legge (non solo l’articolo 2 delle tutele crescenti, ma anche l’articolo 18 della legge 300/1970) ha previsto di dedurre dal risarcimento i soli compensi che il lavoratore abbia ricevuto per effetto di un’altra occupazione.

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