Il 21 maggio u.s. la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14102/2024, nel pronunciarsi circa la legittimità di un avviso di accertamento emesso nei confronti di una società alla quale veniva contestata la detrazione IVA effettuata ai sensi dell’art. 19 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 in relazione a operazioni soggettivamente inesistenti, ha avuto modo di chiarire quali controlli possono essere pretesi dal contribuente.
Innanzitutto, gli ermellini ricordano che è onere dell’Amministrazione, qualora intenda contestare il diritto del contribuente di portare a deduzione il costo ovvero detrarre l’IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento dell’acquisto del bene o servizio, conoscesse, o avrebbe dovuto conoscere, che l’operazione invocata a fondamento del diritto di detrazione si è iscritta in un’evasione o una frode.
In particolare, richiamando diversi precedenti giurisprudenziali, la Corte ha specificato che il suddetto onere può essere assolto dall’Amministrazione anche per mezzo di presunzioni semplici, fondate su elementi oggettivi specifici, attraverso la prova che, nel momento in cui veniva concluso il contratto, il contribuente aveva tutti gli elementi idonei, per un imprenditore onesto e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il servizio al concedente aveva, emettendo la relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode.
Una volta assolto il proprio onere probatorio, spetta al contribuente dimostrare che non era a conoscenza di prendere parte ad un’operazione fraudolenta, non essendo sufficiente, poiché facilmente falsificabili, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti.
Così suddiviso l’onere della prova tra contribuente ed amministrazione, la Corte di Cassazione con la recente pronuncia ha avuto poi modo di ribadire un principio già enunciato in giurisprudenza (v. Cassazione sentenza n. 3144/20222), secondo il quale non possono pretendersi dal contribuente i complessi accertamenti propri dell’amministrazione finanziaria.
Nello specifico, la Corte territoriale d’appello aveva confermato la sanzione contro la contribuente valorizzando, nella sostanza, la struttura organizzativa della cedente e non anche eventuali ricadute negoziali dell’assenza di organizzazione del fornitore, come livelli fuori mercato dei prezzi di cessione, o patti di retrocessione della quota IVA versata, ovvero anomale dinamiche di approvvigionamento, di stoccaggio della merce o di pagamento.
Ed è proprio la mancata valorizzazione dell’assenza di questi ulteriori elementi oggettivi che viene, nel ricorso, lamentata dalla contribuente la quale, tra l’altro, ha specificato che l’impresa cedente era regolarmente iscritta al Registro delle Imprese e che una analisi approfondita della sua struttura organizzativa era impossibile in assenza degli strumenti di indagine propri degli Uffici finanziari.
Pertanto, nell’accogliere le doglianze esposte dalla contribuente la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova della conoscenza o conoscibilità, secondo la massima diligenza esigibile da un accorto operatore professionale, dell’esistenza di una frode IVA consumata a monte della catena produttiva o distributiva, le cautele che si richiede che il cessionario sia tenuto ragionevolmente ad adottare, perché si escluda il suo coinvolgimento, anche solo per colpevole ignoranza, nella frode commessa a monte, non possono attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’amministrazione finanziaria avrebbe i mezzi per effettuare”.
In conclusione, il contribuente non deve svolgere le analisi approfondite proprie dell’amministrazione finanziaria, bensì, utilizzando la diligenza propria di un accurato operatore economico, dovrà dare valore agli elementi oggettivi dal quale poter dedurre che l’operazione possa rientrare in una frode IVA consumata a monte della catena produttiva, tra i quali, ad esempio, i prezzi applicati fuori mercato.
Per tutte le ragioni su esposte, quindi, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata valorizzando la tesi difensiva secondo la quale nessun elemento oggettivo conoscibile con l’ordinaria diligenza dalla contribuente poteva far indurre che l’operazione si inseriva in una più ampia operazione, a monte, fraudolenta.
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