Il presente contributo si propone di illustrare un aspetto cruciale del diritto del lavoro, ovvero la disciplina del licenziamento, con un particolare focus alle conseguenze derivanti dall’omissione o dall’irregolarità della contestazione disciplinare e all’applicazione della tutela reintegratoria.
Il principio fondamentale che emerge dalle recenti pronunce giurisprudenziali è chiaro: l’osservanza delle procedure è tanto essenziale quanto la fondatezza del fatto contestato.
Il licenziamento disciplinare, per essere considerato legittimo, deve essere preceduto da una contestazione disciplinare, che sia preventiva e scritta. Questo requisito non è meramente formale, ma sostanziale, in quanto garantisce al lavoratore il diritto fondamentale di difesa.
L’obiettivo è consentire al lavoratore di fornire le proprie giustificazioni prima che venga assunta una decisione sul provvedimento disciplinare.
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che la contestazione deve soddisfare due principi essenziali per essere valida:
In assenza di una valida contestazione, o in presenza di una contestazione viziata da genericità, il licenziamento è considerato nullo o illegittimo.
Un aspetto di fondamentale importanza, e spesso oggetto di contenzioso, riguarda le conseguenze procedurali del licenziamento disciplinare, in particolare l’applicazione della tutela reintegratoria in caso di vizi formali.
Le pronunce giurisprudenziali, come la recente Sentenza del Tribunale di Terni, Sez. Lav., n. 208 del 2025, sottolineano che la mancata o insufficiente contestazione preventiva degli addebiti comporta l’applicazione della tutela reintegratoria.
Questo è un punto cardine: l’assenza di un valido contraddittorio rende il licenziamento illegittimo, indipendentemente dalla sussistenza del fatto contestato.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4879 del 2020, ha ribadito che “qualora le condotte poste alla base del licenziamento disciplinare non siano state previamente contestate secondo l’iter previsto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, si integra la fattispecie dell’insussistenza del fatto contestato, cui si collega la reintegra”. Questo significa che, anche se il fatto in sé potesse essere oggettivamente vero, la sua mancata o viziata contestazione ne impedisce la valutazione disciplinare, equiparando, ai fini della tutela, la situazione all’insussistenza materiale del fatto.
La tutela reintegratoria piena si applica anche quando il licenziamento è considerato “ontologicamente” nullo, ovvero privo dei requisiti essenziali, come nel caso di licenziamenti discriminatori o ritorsivi. La Corte Costituzionale (sentenza 30 novembre 1982 n. 204) ha già affermato l’importanza del contraddittorio, ponendo le basi per l’interpretazione che porta alla tutela reintegratoria piena in caso di violazione dell’art. 7 L. 300/1970.
Quel che preme rilevare è che non si pone un’ipotesi di mera nullità formale per difetto procedimentale, ma un vizio sostanziale e radicale, che compromette la possibilità di ritenere sussistente giuridicamente il fatto posto a fondamento giustificativo dell’atto risolutorio.
In conclusione, la correttezza procedurale nel licenziamento disciplinare non è un mero tecnicismo, ma un presidio irrinunciabile ed a salvaguardia del diritto di difesa del lavoratore. L’omissione o la scorretta applicazione dell’art. 7 L. 300/1970 espone il datore di lavoro all’obbligo di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze economiche e organizzative che ne derivano. La cura e il rigore nella gestione delle procedure disciplinari sono, pertanto, essenziali per prevenire contenziosi e garantire la legittimità delle azioni datoriali.
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