Da un punto di vista meramente civilistico, il licenziamento è un atto unilaterale recettizio. Come tale, acquista piena efficacia quando è portato a conoscenza del suo destinatario: il lavoratore. Da tale data, il lavoratore ha 60 giorni di tempo per impugnare il licenziamento ritenuto illegittimo.
Di norma, se la lettera che revoca del licenziamento giunge a conoscenza del lavoratore prima della comunicazione del licenziamento stesso, ne annullerà ogni effetto. Al lavoratore non è richiesto di accettare il recesso e/o di rinunciare ad impugnarlo.
In ogni caso, per i contratti di lavoro conclusi o convertiti dopo il 4.3.2015, il datore può revocare il licenziamento entro 15 giorni da quando il lavoratore ne ha avuto conoscenza, anche in presenza di impugnativa da parte del dipendente.
Con la revoca del licenziamento il rapporto di lavoro s’intende ripristinato senza soluzione di continuità. Ciò significa che il lavoratore ha diritto a percepire la retribuzione maturata nel periodo intercorso tra il licenziamento e la sua revoca. In questa ipotesi, il datore non subirà alcuna sanzione. (cfr. D. Lgs. 23/2015).
Il licenziamento di un dipendete è uno degli atti più delicati che un’impresa possa compiere. Ciò in quanto un licenziamento irrogato con le giuste modalità formali e/o sostanziali può costare all’azienda importanti sanzioni. Ciò a prescindere dal merito della questione. L’istituto della revoca giunge in soccorso dell’imprenditore che, a mente fredda e con il consiglio di un avvocato, capisce di aver commesso un errore.
La stessa corte di Cassazione, con sentenza n. 12448/2018 statuiva quanto segue: “La previsione della possibilità di revoca del licenziamento, (…) è finalizzata a favorire il ripensamento del datore di lavoro, così da sottrarlo alle conseguenze sanzionatorie per il caso di recesso illegittimo, senza che il dato testuale della norma ovvero la sua “ratio” consentano di configurare un divieto generale di revoca del licenziamento oltre i limiti temporali ivi indicati, dovendosi in tale caso applicare il principio secondo il quale è consentita la rinnovazione del licenziamento disciplinare nullo per vizio di forma – anche se il primo licenziamento sia stato già impugnato in giudizio – in base agli stessi motivi sostanziali determinativi del precedente recesso, risolvendosi tale rinnovazione nel compimento di un negozio diverso dal precedente, che, pertanto esula dallo schema dell’art. 1423 c.c., norma diretta ad impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti “ex tunc” e non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della propria autonomia, negoziale.
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