La temporaneità del rapporto di lavoro e la condizione di incertezza socio economica che ne deriva, sono situazioni purtroppo sempre più frequenti nella società odierna, nella quale il ricorso a forme contrattuali a tempo determinato è altamente diffuso. Ancor più diffusa, poi, è la reiterazione abusiva dei contratti di lavoro a termine, posta in essere anche quando il lavoratore avrebbe maturato il diritto a vedere convertito il proprio rapporto di lavoro da determinato a indeterminato.
Ebbene tale prassi, consolidata sia nel pubblico impiego che nel settore privato, è da tempo oggetto di pronunce giurisprudenziali scaturite dai ricorsi di lavoratori, i quali sempre più spesso si vedono costretti ad adire il giudice per vedersi riconoscere il diritto alla stabilità lavorativa.
La risposta a tali richieste di tutela è rappresentata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere in sede giudiziale la conversione del rapporto di lavoro (da determinato ad indeterminato), e il diritto al risarcimento dei danni subiti per i mesi o gli anni di ingiusto precariato. Tuttavia, il ricorso ai suddetti strumenti di tutela, con particolare riferimento al diritto al risarcimento del danno c.d. “da precariato”, non è sempre stato pacificamente riconosciuto in giurisprudenza.
Nelle più risalenti pronunce giurisprudenziali sul punto, infatti, si riscontra il netto rifiuto dei giudici a riconoscere tale danno e ciò sulla base di un preciso argomento: trattasi di una categoria di danno, quello da precariato, che sfugge ai criteri civilistici in tema di risarcimento e onere della prova, in base ai quali chiunque agisca in giudizio al fine di ottenere il ristoro dei danni subiti ha l’onere di dar prova di tali danni (ex multis Cass., sez. Lavoro n. 10127/2012). Dimostrazione impossibile per il lavoratore, il quale può semplicemente dar prova della reiterata successione di contratti a tempo determinato, ma non è effettivamente in grado di provare alcun danno, tanto più per il fatto che lo stesso ha ricevuto una retribuzione, quindi una gratificazione economica, per le mansioni svolte.
Ebbene, da qualche anno a questa parte i giudici di merito e di legittimità sembrano aver cambiato orientamento, dimostrandosi favorevoli al riconoscimento del risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’illegittima reiterazione dei contratti a termine. Il fondamento del diritto al risarcimento risiede, infatti, nell’illegittima assunzione del lavoratore il quale continua ad essere impiegato alle dipendenze del datore di lavoro in violazione delle norme imperative in materia, che impongono la conversione del rapporto di lavoro (ex multis Cass. sez. Lavoro n. 26951/2013).
Ciò detto, il risarcimento del danno da precariato è dovuto anche quando il lavoratore, nelle more del giudizio, ottienga la conversione del rapporto di lavoro?
Trattasi di un’interessante profilo applicativo della tematica, che recentemente è stato affrontato e risolto dalla quarta sezione Lavoro della Corte d’Appello di Genova. I giudici, muovendo dalla ricostruzione della natura del danno da precariato, consistente non già nella “mancata conversione del rapporto di lavoro”, quanto “nella perdita di chance della occupazione alternativa migliore” hanno statuito che il conseguimento dell’oggetto principale della domanda, ovvero la stabilizzazione lavorativa, determina “la cessazione della materia del contendere”: conseguentemente, la subordinata richiesta risarcitoria perde la propria rilevanza sostanziale e processuale e non può più trovare riconoscimento (Corte Appello Genova, se. IV Lavoro, n. 16/2017).
Da quanto messo in luce si evince chiaramente come la categoria del danno da precariato sia, di fatto, in continua espansione teorica e pratica. Un’evoluzione non soltanto di tipo contenutistico e concettuale, ma soprattutto pratica e processuale, destinata ad incidere sull’attività degli operatori del diritto ai quali è richiesto di declinare, dimostrare e riempire di contenuto tale danno, e di rappresentarlo sapientemente nelle aule di giustizia.
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