Il lavoratore subordinato si pone in concorrenza con il datore di lavoro in due casi:
Il divieto di concorrenza opera solo in costanza di rapporto e cessa con la risoluzione dello stesso.
Parte datoriale e lavoratore subordinato possono tuttavia sottoscrivere un patto di non concorrenza.
Il patto di non concorrenza prevede che, successivamente alla cessazione del rapporto, il lavoratore sia obbligato a non svolgere attività in proprio o alle dipendenze di altri, in concorrenza con il precedente datore di lavoro.
Il patto di non concorrenza deve, a pena di nullità, avere i seguenti requisiti:
Il patto in parola, che è un vero e proprio contratto, può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella di parte datoriale e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni che il lavoratore ha svolto in costanza di rapporto. Si precisa che tuttavia il patto di non concorrenza non può essere talmente ampio da impedire al lavoratore di esplicare la propria professionalità al punto da compromettere ogni potenzialità reddituale.
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 7835 del 4.4.2006, ha stabilito che “Nel rapporto di lavoro subordinato il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo, poiché l’ampiezza del relativo vincolo deve essere tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita. La valutazione circa la compatibilità del suddetto vincolo concernente l’attività con la necessità di non compromettere la possibilità di assicurarsi il riferito guadagno come pure la valutazione della congruità del corrispettivo pattuito costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato.”
La valutazione circa la congruità dei limiti spaziali relativi al patto di non concorrenza è in stretta connessione con l’oggetto. Se il lavoratore è in grado di svolgere la propria attività anche in un ambito spaziale più ampio di quello limitato, allora il patto valido.
La durata massima del patto di non concorrenza è di 3 (tre) anni, 5 (cinque) per i dirigenti. Detto requisito temporale inizia a decorrere dal primo giorno successivo alla cessazione del rapporto lavorativo.
In caso di patto di non concorrenza il datore di lavoro dovrà corrispondere al lavoratore un corrispettivo proporzionato all’obbligo imposto. Il legislatore non ha stabilito in maniera puntuale né la forma, né l’entità e nemmeno le modalità di erogazione del corrispettivo dovuto. Pertanto le predette variabili sono lasciate alla libera determinazione delle parti. Solitamente il corrispettivo per il patto di non concorrenza viene erogato in costanza di rapporto e la sua quota può essere stabilita in misura fissa o in percentuale della retribuzione.
Il corrispettivo del patto costituisce elemento distinto dalla retribuzione. Se erogato mensilmente in costanza di rapporto, il corrispettivo per il patto di non concorrenza può essere computato nella retribuzione utile per il calcolo del TFR. In tali casi il corrispettivo assume rilevanza anche ai fini contributivi.
In caso di violazione da parte del datore di lavoro, il dipendente può agire per ottenere il compenso o risolvere il contratto.
In caso di violazione da parte del lavoratore, l’azienda può chiedere la restituzione dei compensi già erogati e richiedere il risarcimento per i danni subiti.
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