Durante gli ultimi anni, anche a causa della situazione sanitaria legata al Covid-19 e alle nuove modalità di lavoro che si sono sviluppate, si è diffuso il fenomeno del coworking. Questo consiste in una forma di condivisione degli spazi di lavoro che consente ai coworker di godere di una postazione lavorativa dotata di servizi strumentali.
Il contratto di coworking è un negozio atipico, non regolamentato dal codice civile o da una specifica normativa ma, in quanto persegue interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., si riserva alle parti la libertà di determinare il contenuto dell’atto.
Trattasi di contratto di durata a causalità mista: infatti, l’oggetto del contratto è la disponibilità, a fronte del pagamento di un corrispettivo, di uno spazio, che per le sue caratteristiche può prestarsi ad esser concesso, per brevi-medi periodi di tempo, in godimento, di norma a professionisti e/o imprenditori, che possono accedere ad una postazione di lavoro già attrezzata e fornita di servizi.
Le Parti del contratto sono il concedente (persona fisica o società) che dispone di un immobile idoneo a essere a frazionato in postazioni per ufficio e l’utilizzatore o coworker, che, avendo bisogno di un posto attrezzato per svolgere la propria attività professionale, ha la possibilità di disporre, per il tempo che gli occorre, di un suo spazio all’interno del locale.
La durata del contratto di coworking è libera.
Se, in maniera semplicistica, si volesse inquadrare il contratto di coworking all’interno della disciplina normativa e codicistica, si potrebbe sostenere che tale contratto rappresenta una commistione tra il contratto di locazione e il contratto di appalto di servizi.
La prassi sviluppatasi in ordine a tale contratto consente di escludere la riconducibilità alla ipotesi tipica del contratto di locazione, in quanto nel contratto di coworking non è previsto che il l’utilizzatore o coworker possa vantare diritti di godimento sull’immobile.
Tale esclusione consente altresì di derogare alle previsioni relative alla durata di una locazione per uso diverso da quello abitativo, di cui alla Legge 392/1978, il cui termine minimo legale è fissato in 6 anni (art. 27).
È evidente, infatti, che la sussunzione del contratto di coworking all’interno dello schema tipico della locazione non consentirebbe il soddisfacimento delle esigenze temporanee da parte dell’utilizzatore o coworker, che ha bisogno di uno spazio ad uso ufficio per un periodo breve avendo come obiettivo quello di ridurre i costi e gli oneri derivanti da un contratto diverso come ad esempio quello di locazione.
Tra le clausole impiegate oramai in maniera costante in ordine al contratto di coworking si segnala la clausola di rinnovo automatico, per il medesimo periodo originariamente contratto, del contratto.
Tale clausola rappresenta un vantaggio per il concedente e pertanto si richiede il requisito formale della doppia sottoscrizione previsto per le clausole c.d. vessatorie (cfr. art. 1341 cod. civ.).
Ovviamente un temperamento a tale clausola di automatico rinnovo può esser rappresentato dalla previsione della clausola di recesso a favore dell’utilizzatore o coworker.
Proprio per le sue evidenti differenze con il contratto di locazione, il recesso dell’utilizzatore o coworker non dovrebbe essere sottoposto a limitazioni anche se la prassi ha evidenziato la previsione di termini di preavviso per il recesso a carico dell’utilizzatore o coworker particolarmente stringenti nel caso di contratto con termini brevi.
Un altro elemento che contraddistingue espressamente il contratto di coworking dai contratti tipici è l’esclusione all’interno del contratto della individuazione specifica dello spazio. Il concedente, infatti, si impegna a fornire una tipologia di spazio, che viene definita sulla base delle caratteristiche, della dimensione e dei servizi accessori che vengono forniti (di solito mediante diverse ipotesi di servizio e di prezzo). Pertanto, l’utilizzatore o coworker acconsente ad esser collocato fisicamente negli spazi disponibili individuati discrezionalmente da parte del concedente.
Tali caratteristiche del contratto determinano altresì una rilevante conseguenza: l’utilizzatore o coworker non può essere qualificato detentore qualificato dell’immobile, con la conseguenza che la responsabilità da cosa in custodia permane, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., in capo al concedente.
Egli sarà unicamente tenuto a restituire la postazione nello stato di fatto in cui gli è stata consegnata ed è considerato responsabile esclusivamente per quei danni arrecati ai locali, agli arredi e agli impianti del bene per fatto proprio.
Per l’apertura di uno spazio di coworking deve essere presentata una semplice richiesta in Questura, alla quale si applica la regola del silenzio assenso, che si perfeziona in sessanta giorni.
Sotto il profilo fiscale, il contratto di coworking viene assimilato ad una generica prestazione di servizi e pertanto trova applicazione l’imponibilità Iva con aliquota 22%.
La registrazione è un elemento necessario nel caso di controversia tra le parti. In tal caso, il contratto deve essere registrato presso un ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate, con l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa, in ragione del principio di alternatività Iva – imposta di registro, di cui all’art. 40 del DPR n 131/86 che testualmente dispone: “Per gli atti relativi a cessioni di beni e prestazioni di servizi soggetti all’imposta sul valore aggiunto, l’imposta si applica in misura fissa”.
L’obbligo di registrazione sorge, altresì, nel caso in cui le parti decidano di redigere il contratto nella forma di scrittura privata autenticata o di atto pubblico.
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