Com’è noto, l’art. 16 della Legge n. 240/2010 (c.d. ‘Legge Gelmini) ha introdotto l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) quale requisito necessario per partecipare alle procedure di reclutamento per i ruoli di professore universitario di prima e seconda fascia. Siffatto titolo abilitativo svolge la precipua funzione di attestare il “raggiungimento, da parte di ciascun candidato, della qualificazione scientifica indispensabile per aspirare a ricoprire posizioni di professore (…) nelle Università italiane” (così Circolare del MIUR dell’11 gennaio 2013, prot. n. 0000754). La procedura di conferimento del titolo, inoltre, non ha carattere comparativo, poiché il sistema prevede che spetti ai singoli atenei, nell’ambito di specifiche procedure di chiamata, valutare comparativamente le candidature presentate da soggetti ‘abilitati’.
L’abilitazione viene, dunque, attribuita (o negata) da una Commissione ad hoc con un “motivato giudizio fondato sulla valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di ricerca e sviluppo svolte, ed espresso sulla base di criteri e parametri differenziati per funzioni e per settore concorsuale, definiti con decreto del Ministro, sentiti il CUN e l’ANVUR” (art. 16, l. cit.)
Ebbene, detti criteri e parametri – la cui interpretazione e applicazione ha generato, nell’ambito della prima tornata ASN del 2012, un enorme contenzioso dinanzi a TAR Lazio – sono stati da ultimo novellati con il D.M. 7 giugno 2016, n. 120, sicché pare opportuno segnalarne le più evidenti novità. La modifica di tali criteri va, infatti, ad incidere su ciò che ‘conta’ ai fini del conseguimento dell’abilitazione (e che, dunque, deve necessariamente confluire nella domanda di partecipazione alla procedura abilitativa). L’ASN rappresenta, ormai, un ‘passaggio obbligato’ in qualsiasi percorso accademico: è chiaro, quindi, che la piena conoscenza delle ‘regole del gioco’ predisposte dal MIUR sia un pre-requisito indispensabile per ogni candidato.
V’è da premettere che il D.M. n. 120/2016 giunge a valle di una più generale opera di riforma – o di assestamento – dell’Abilitazione scientifica nazionale (introduzione della procedura c.d. ‘a sportello’, modifica delle modalità di sorteggio delle Commissioni, requisiti curriculari più stringenti per gli aspiranti commissari, maggioranza assoluta dei componenti per il conferimento del titolo), realizzata con il d.P.R. n. 95/2016, ma è proprio dalla disciplina sulla valutazione dei candidati che emergono le novità più importanti. Vediamole.
Rispetto alla previgente disciplina (D.M. n. 76/2012), viene introdotta una soglia minima di dieci pubblicazioni da presentare con la domanda (art. 2, co. 1, lett. b); sparisce il riferimento al carattere analitico della valutazioni che le Commissioni devono svolgere (e verbalizzare) sulle pubblicazioni e ai titoli presentati dai candidati (art. 3, co. 1); eliminata anche – sembrerebbe – la possibilità per le Commissioni di adottare criteri ulteriori o più selettivi rispetto a quelli previsti dal Decreto in esame (art. 3, co. 2).
Con specifico riferimento ai criteri per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche, e in particolare a quello della ‘continuità della produzione scientifica’ del candidato, v’è poi da segnalare la – discutibile – opzione di non tener conto dei periodi di congedo per maternità e di altri periodi di congedo o aspettativa diversi da quelli per motivi di studio (come prevedeva l’art. 4, co. 3, lett. a, D.M. n. 76/2016). Una lacuna, quest’ultima, rispetto alla quale è lecito ipotizzare consistenti dubbi di costituzionalità per violazione dell’art. 3, cost.
Con riguardo, infine, ai criteri e ai parametri per la valutazione dei titoli, l’art. 5 prevede una disciplina più chiara (la valutazione positiva dei titoli passa, infatti, attraverso i) il positivo accertamento dell’impatto della produzione scientifica del candidato, utilizzando specifici indicatori allegati al decreto, e ii) il possesso di tre titoli fra i sei selezionati, a loro volta, dalla Commissione fra dieci tipologie di titoli previste dall’allegato A del Decreto) ma, forse, anche più restrittiva: v’è da rilevare che, delle dieci tipologie di titoli previste dall’Allegato A, alcune presuppongono la partecipazione di candidati con alle esperienze estremamente (forse, troppo) qualificate: si pensi alla responsabilità scientifica per progetti di ricerca internazionali e nazionali, o la responsabilità di studi e ricerche scientifiche affidati da qualificate istituzioni pubbliche e private, ovvero la partecipazione al collegio dei docenti nell’ambito di dottorati di ricerca accreditati dal MIUR. Quanti ricercatori (o professori associati) in Italia possono vantare esperienze di questo tipo? Appare, dunque, chiaro che la selezione da parte delle Commissioni dei titoli valutabili dovrà essere molto cauta, incidendo in maniera diretta (e quasi automatica) sull’accoglibilità della domanda del candidato.
E veniamo al conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale. La regola, posta dall’art. 6 del D.M. in esame, appare semplice; il titolo è conferito al ricorrere delle seguenti condizioni:
Ovviamente, a destare interesse è il requisito sub c): sparisce la precedente classificazione di merito delle pubblicazioni (divisa in eccellente, buono, accettabile, limitato) e subentra un giudizio unico e, per così dire, “tendente verso l’alto”. A rendere, poi, ancor più incerto l’orizzonte è l’Allegato B del Decreto, il quale fornisce la seguente definizione di “qualità elevata”: “Si intende per pubblicazione di qualità elevata una pubblicazione che, per il livello di originalità e rigore metodologico e per il contributo che fornisce al progresso della ricerca, abbia conseguito o è presumibile che consegua un impatto significativo nella comunità scientifica di riferimento a livello anche internazionale”.
Si tratta a ben vedere di una definizione – necessariamente – ‘aperta’ che lascerà molto spazio alla discrezionalità delle Commissioni, le quali – a quanto si legge – ben potranno ritenere una pubblicazione di “qualità elevata” non solo sulla base di un esame dell’impatto ottenuto dalla medesima nella comunità scientifica, ma anche in forza di un giudizio meramente prognostico circa tale incidenza. Il rischio di discriminazioni o di motivazioni irragionevoli è, quindi, concreto.
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