La grave crisi economica e la precarietà che affliggono il mondo del lavoro hanno fatto riemergere il problema della retribuzione e della sua adeguatezza.
L’art. 36 della Costituzione sancisce che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.
L’art. 36 Cost. comprende due principi:
Come sancito dalla giurisprudenza, dunque (cfr. Cass., n. 24449/16) «l’art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, “nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda”: quello ad una retribuzione “proporzionata” garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata”; mentre quello ad una retribuzione “sufficiente” dà diritto ad “una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo”, ovvero ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. In altre parole, l’uno stabilisce “un criterio positivo di carattere generale”, l’altro “un limite negativo, invalicabile in assoluto”.
In assenza di precise disposizioni normative e legislative, la giurisprudenza ha individuato nelle tariffe salariali dei contratti collettivi della categoria, ove non direttamente applicabili, veri e propri criteri di valutazione di congruità della retribuzione.
Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell’art. 1419, secondo comma, c.c., il giudice adegua la retribuzione, per consentire l’adeguatezza, secondo i criteri dell’art. 36, con valutazione discrezionale.
Nell’ipotesi in cui, però, la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza.
Il giudice, infatti, può discostarsi da tali criteri fornendo un’adeguata motivazione in merito agli altri parametri utilizzati e alle ragioni che hanno determinato la variazione (Cass. Civ., 2245/2006; Cass. civ., 22 giugno 2004 n. 11624) in quanto difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali (cfr. Cass. Civ., n. 2672/2005).
Di fatto, dunque, nel rapporto di lavoro subordinato la retribuzione prevista dal contratto collettivo acquista, pur solo in via generale, una “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza (Cass. Civ., n. 25889/2008).
Si segnala un filone giurisprudenziale sulla problematica della retribuzione adeguata (Trib. Milano N. 1977/2016, Corte d’Appello di Milano sentenza n. 1885/2017, Trib. Torino sentenza N. 1128/2019) che ribadisce la necessità di rispettare il criterio di sufficienza della retribuzione e della funzione sociale della stessa, evidenziando la condizione di crisi della contrattazione collettiva e, specialmente, del ruolo di autorità salariale che essa ha tradizionalmente rivestito.
Nelle citate sentenze, in ordine ai casi disciplinati, si è evidenziato come i contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative che dovevano costituire il parametro della retribuzione adeguata, dunque proporzionata e sufficiente, dovevano dichiararsi nulli, quanto alle tariffe salariali, per contrarietà a quella stessa norma costituzionale di cui si presumeva fossero naturale attuazione.
In base a tale filone, per potersi parlare di retribuzione adeguata, il principio di sufficienza della retribuzione dettato dall’art. 36 Cost. impone che al lavoratore venga assicurato non solo un minimo vitale, ma anche il raggiungimento di un tenore di vita socialmente adeguato.
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