Il lavoratore ha 60 giorni di tempo per impugnare il licenziamento ritenuto illegittimo. Nella maggior parte dei casi l’impugnazione è avvertita come un atto meramente prodromico all’instaurazione del procedimento giudiziario, ma v’è una minima possibilità che il datore di lavoro si ravveda e revochi il provvedimento. Cosa succede in questi casi?
Ebbene, occorre innanzi tutto comprendere bene la natura del licenziamento. Questo è l’atto unilaterale recettizio con cui il datore di lavoro risolve il contratto che lo lega al lavoratore. Il licenziamento può intervenire per diverse ragioni, di seguito le principali tipologie di licenziamento individuale:
È il classico licenziamento disciplinare che scaturisce a seguito della violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi contrattuali. Detta violazione deve essere talmente grave da far venire meno il rapporto di fiducia tra le parti senza consentire, nemmeno in via temporanea, la prosecuzione del rapporto di lavoro;
Anche questo è un tipo di licenziamento disciplinare, costituendo pur sempre una sanzione a comportamenti ritenuti tali da incidere in modo insanabile nel regolare proseguimento del rapporto di lavoro. Il tipo di licenziamento in parola è meno grave del precedente e consente quantomeno la temporanea prosecuzione del rapporto di lavoro. Vengono fatte rientrare nell’ambito del giustificato motivo soggettivo anche le figure dello scarso rendimento o del comportamento negligente del dipendente;
Scaturisce da motivazioni inerenti l’organizzazione dell’impresa quali fattori di crisi, cessazione d’attività, o anche il solo venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il dipendente senza che vi sia possibilità di ricollocamento all’interno del ciclo produttivo. Rientrano in tale categoria anche i licenziamenti intimati ai lavoratori che perdono, per propria colpa, le capacità per cui erano stati assunti;
È il caso in cui il lavoratore viene licenziato verbalmente.
Questo tipo di licenziamento è contrario alla legge e, salvo casi molto particolari, pertanto è nullo.
In quanto atto unilaterale recettizio, ex art. 1334 c.c., il licenziamento acquista piena efficacia non appena giunge a conoscenza del lavoratore. Quindi, da un punto di vista strettamente civilistico, la sua revoca parrebbe efficace purché giunga a conoscenza del lavoratore prima dell’atto di recesso.
Infatti, prima della riforma Fornero la revoca era possibile ma, secondo la giurisprudenza prevalente, era necessario che il lavoratore accettasse tale nuova situazione, rinunciando ad impugnare il licenziamento.
Successivamente alla riforma Fornero, in base al nuovo testo del comma 10 dell’articolo 18 della legge 300/1970, il datore di lavoro poteva revocare il licenziamento entro 15 giorni dal ricevimento dell’impugnazione. Addirittura la revoca compiuta oltre il predetto termine era ancora possibile, ma solo se accompagnata dall’accettazione del lavoratore.
Dunque, in base al “nuovo” articolo 18, se il recesso veniva revocato entro 15 giorni dall’impugnazione, il rapporto di lavoro si intendeva ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non si applicava alcuna sanzione pecuniaria aggiuntiva prevista per il licenziamento illegittimo o inefficace.
Il punto è stato oggetto d’esame del Tribunale di Torre Annunziata che, con sentenza n. 2486 del 2.3.2015 spiegava: “Con il licenziamento il contratto di lavoro si risolve e, poiché come per la costituzione, anche per la ricostruzione del rapporto è necessario il consenso del lavoratore, la revoca dell’atto non può avere di per sé l’effetto di ricostruire il rapporto stesso. La revoca del licenziamento e l’invito a riprendere servizio non possono sottrarre al prestatore il diritto all’indennità sostitutiva ex art. 18 comma 5 S.L., il cui esercizio verrebbe altrimenti ad essere rimesso di fatto al datore di lavoro. Con la “cd. riforma Fornero” il diritto di richiedere l’indennità sostitutiva alla reintegrazione del posto di lavoro non discende direttamente dalla revoca del licenziamento e dal contestuale invito a riprendere l’attività lavorativa avvenuta nel corso del giudizio da parte del datore di lavoro. Quest’atto datoriale, infatti, non esime il Giudice dal verificare se il vizio lamentato del recesso revocato preveda come sanzione la reintegrazione ovvero la cessazione del rapporto ed il pagamento dell’indennità risarcitoria. Solo nella prima ipotesi, sarà possibile riconoscere al lavoratore l’indennità sostitutiva ex art. 18 comma 5 legge 300/70.”
Dunque la revoca pare essere percepita dalla giurisprudenza quale strumento “costitutivo” e non “ripristinatorio” del rapporto.
Ancora più esplicita è stata la Corte dei Conti dell’Emilia Romagna che il 7.3.2016 ha evidenziato quanto segue: “Il diritto del lavoratore di esercitare l’opzione all’indennità sostitutiva del rapporto di lavoro, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, prima della sentenza che dichiara l’illegittimità del licenziamento, è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha evidenziato che la revoca del licenziamento disciplinare da parte del datore, la quale si concreta in una proposta contrattuale avente ad oggetto la ricostituzione del rapporto di lavoro, non impedisce al prestatore, ove il rapporto stesso non sia stato di fatto ripristinato, di richiedere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva prevista dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970.”[1]
Purtroppo il legislatore sembra aver recentemente, e definitivamente, cambiato rotta. Infatti per i contratti di lavoro conclusi o convertiti dopo il 4.3.2015, il Decreto Legislativo n. 23/2015 è intervenuto come segue: “Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purche’ effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuita’, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto.”
La giurisprudenza si è subito interessata all’eccezione configurata dal legislatore a scapito dell’art. 1334 c.c.. Infatti il Tribunale di Genova, con ordinanza 27.1.2016, la n. 3640 del Giudice Ravera, propone un’analisi della disciplina della revoca del licenziamento che vale la pena citare.
In particolare Giudicante affronta il tema dell’applicabilità della norma alle aziende con meno di 16 dipendenti. Quest’ultima questione è stata risolta in dottrina, afferma il Giudice genovese, in senso non univoco. L’esegesi dell’articolo 18, come riscritto dalla legge Fornero, porta a concludere per l’applicabilità della revoca al caso in esame, anche se in generale l’istituto della revoca non sembra sempre applicabile alle imprese con meno di sedici dipendenti. Infatti nell’art. 18 possono identificarsi due blocchi di disposizioni. Il primo (comma da 1 a 3) disciplina il licenziamento nullo e le sue conseguenze. Si tratta di disposizioni applicabili, ad imprenditori e non, “quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro” (comma 1 sulla fine del primo periodo). Il secondo (comma da 4 a 9) disciplina il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, giusta causa e giustificato motivo oggettivo e loro conseguenze.
Tali disposizioni si applicano “al datore dì lavoro imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori” (c. 8).
L’istituto della revoca è collocato al comma 10, dopo i due blocchi normativi sopra indicati e, in linea di massima sembrerebbe disciplinare un istituto di carattere generale riferibile a qualsiasi licenziamento quale contrarius actus: il condizionale è però d’obbligo, aggiunge il Giudice di Genova.
Infatti il tenore letterale del comma 1, nel cui ambito ricade il licenziamento per cui è causa (licenziamento per violazione dell’articolo 54 del T.U. n. 151/2001) non lascia dubbio sul fatto che la disciplina e le conseguenze della nullità, siano applicabili a tutti i datori di lavoro (quale che sia il numero dei dipendenti), ed è quindi applicabile anche la revoca del licenziamento che, topograficamente è collocata proprio nell’articolo 18 dello Statuto.
Dunque, la revoca non potrebbe essere limitata ai soli datori con più di quindici dipendenti perché per la nullità del licenziamento la disciplina è comune a tutti i datori di lavoro, qualunque sia il numero dei dipendenti. Non è così, probabilmente, per la disciplina in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, giusta causa e giustificato motivo oggettivo. Infatti il successivo comma 8 dispone che i comma da 4 a 7 (che riguardano appunto le ipotesi di giustificato motivo soggettivo, giusta causa e giustificato motivo oggettivo) si applicano alle imprese che occupano più di quindici dipendenti, ipotesi di recesso per le quali, nelle imprese con meno di sedici dipendenti, opera, quanto a conseguenze, l’articolo 8 della legge 604/1966.
Dal che sembrerebbe trarsi la conclusione che la revoca, istituto collocato nell’articolo 18, non sia istituto applicabile ai datori con meno di sedici dipendenti in ipotesi diverse da quelle della nullità di cui al comma 1: come del resto la espressa esclusione nel comma 10 delle conseguenze sanzionatorie previste nel presente articolo (cioè nell’articolo 18) e non nell’articolo 8 legge 604/1966, sembra confermare, con disciplina della revoca asimmetrica tra imprese con più e meno sedici dipendenti nelle ipotesi di licenziamento privo di giustificato motivo soggettivo, giusta causa e giustificato motivo oggettivo.
In conclusione: la revoca del licenziamento, almeno nelle ipotesi di nullità di cui al comma l, è sicuramente applicabile a tutti i licenziamenti qualunque sia il numero dei dipendenti.
Avv. Aurelio Salata
[1] Art. 18 L. 300/1970, comma 5: Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.[:]
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