Ormai, quando si affrontano i temi connessi all’istituto dell’adozione, non si può prescindere dalla giurisprudenza della CEDU, la quale nella definizione della nozione di famiglia e di vita familiare (art.8 Cedu), ha chiarito alcuni aspetti, in particolare in merito ai presupposti della dichiarazione di adottabilità di un minore.
Sul punto si richiama in particolare la pronuncia dello scorso ottobre della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che riguarda la vicenda di una donna italiana, madre di tre figli, affetta da depressione e, per questo, sottoposta ad una terapia farmacologica.
Nell’anno 2009, quando i figli avevano rispettivamente 1 anno, 3 e 4 anni, i servizi sociali informarono il Tribunale per i Minorenni di Roma della situazione di disagio in cui versava la famiglia, fu avviato un procedimento di urgenza e, con provvedimento di poco successivo, il Tribunale per i Minorenni ordinava l’allontanamento dei minori dalla famiglia, disponendone la collocazione in istituto e ai Servizi di individuare un progetto in favore dei minori. I genitori, sentiti dal Tribunale, ammisero la difficoltà di occuparsi dei figli, ma affermarono altresì la volontà di occuparsene in maniera adeguata, unitamente al nonno. Dalla relazione del G.I.L. (Gruppo di lavoro integrato sulle adozioni), emerse che, nonostante le difficoltà familiari, i genitori avevano mostrato un approccio positivo e pertanto il G.I.L. propose il ritorno dei minori presso i genitori e la realizzazione di un progetto familiare. Sulla base di tale determinazione e della volontà dei genitori e del nonno di occuparsi dei minori, nel gennaio 2010 venne disposto il loro rientro in famiglia, ma dopo solo tre mesi, il riavvicinamento minori e genitori venne nuovamente interrotto ed i minori allontanati. Il Tribunale stabilì un diritto di visita dei genitori in due ore settimanali per il padre ed un’ora ogni 15 giorni per la madre.
Nel marzo del 2010 la Procura chiese che fosse avviata la procedura di dichiarazione dello stato di adottabilità dei minori; i genitori, sentiti immediatamente dopo, asserirono di avere la ferma intenzione di occuparsi dei figli, la ricorrente affermò altresì, che si stava curando e il padre che si sarebbe preso cura dei minori.
Nell’ottobre il Tribunale dispose una perizia sui genitori, dalla quale emerse che il padre aveva l’idoneità ad occuparsi dei minori ed assumersi le proprie responsabilità e che la ricorrente era affetta da “disturbo della personalità borderline che interferiva, in misura limitata con la sua capacità di esercitare il ruolo materno”.
Il perito concluse per mantenere i minori in istituto e predisporre un riavvicinamento ai genitori, anche intensificando le occasioni di incontro. Infine propose di effettuare una nuova valutazione sul nucleo dopo 6 mesi.
Tuttavia, nel marzo 2011, il Tribunale dichiarò i minori adottabili e decise per l’interruzione degli incontri con i genitori, sottolineando che non vi era la necessità di una nuova valutazione tecnica sul nucleo familiare, essendo evidente, a detta del Tribunale, la difficoltà dei genitori ad esercitare il loro ruolo.
La ricorrente e il padre dei minori proposero appello e nel frattempo il Tribunale ordinò che ciascun minore fosse dato in affidamento ad una famiglia diversa.
Con sentenza definitiva del febbraio 2012, la Corte di Appello di Roma rigettò l’appello, e confermò l’adottabilità. I genitori fecero allora Ricorso in Cassazione che nel gennaio 2014 lo respinse, asserendo che la Corte di Appello aveva correttamente confermato la statuizione di Primo Grado e che la dichiarazione di adottabilità teneva conto del superiore interesse dei minori ad essere accolti in una famiglia capace di occuparsene.
Nel febbraio 2014 la ricorrente chiese al Tribunale per i Minorenni di Roma la revoca della dichiarazione di adottabilità, producendo, a sostegno della propria richiesta, una documentazione clinica probante il miglioramento del proprio stato di salute. Con sentenza del maggio 2014, il Tribunale per i Minorenni di Roma rigettò la domanda della ricorrente.
La ricorrente fece allora ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per la violazione dell’art.8 della Cedu.
Nella pronuncia i giudici di Strasburgo mettono in luce la violazione dell’art. 8 da parte delle Autorità Nazionali che hanno reciso il legame familiare senza approfondire le indagini del nucleo mediante una nuova valutazione della famiglia a seguito dei miglioramenti di salute della madre, non avendo quindi concepito l’adozione come extrema ratio, ma avendola scelta come soluzione preliminare e preferenziale.
Quanto asserito dai Giudici di Strasburgo trova conferma nella consolidata giurisprudenza della Corte laddove, già in precedenza, era stato sottolineato che lo Stato incorre nella violazione dell’articolo 8 quando non permette ad un legame familiare di svilupparsi, agendo in modo contrario a tale scopo (Olsson c. Svexia e Neulinger e Shoruk c. Svizzera), e non tenendo in prioritaria considerazione l’interesse del minore (Sahin c. Germania). La Corte infatti esige che le misure che conducono alla rottura dei legami familiari tra un minore e la famiglia siano applicate in circostanze eccezionali, ovvero nei casi in cui i genitori si siano dimostrati indegni. ( Clemeno ed altri c. Italia), o quando vi sia un’esigenza primaria che riguarda l’interesse superiore del minore ( C.S. c. Regno Unito). Nel caso in esame non solo non vi erano tali presupposti, ma da parte dei genitori vi era anche la concreta volontà di cooperare con i Servizi al fine di ristabilire un legame con i figli.
È di assoluto interesse il passaggio della sentenza in esame in cui la Corte raccomanda che ciascuno Stato si doti di strumenti giuridici adeguati ad assicurare il rispetto degli obblighi positivi ad esso imposti ai sensi dell’art. 8 della Convenzione (K.A.B. c. Spagna, X c. Lettonia). Inoltre i giudici di Strasburgo richiamano, ed è di vivo interesse per il tema in esame, la lettura dell’art.8 che “implica il diritto per un genitore di ottenere misure idonee a riunirlo al figlio e l’obbligo per le autorità nazionali di adottarle” ( Eriksson c. Svezia, P.F. c. Polonia). La Corte poi aggiunge che l’adeguatezza della misura dipende dalla rapidità della sua attuazione, in quanto lo scorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili per il rapporto tra il minore e il genitore che non vive con lui (notissima Zhou c. Italia).
Ciò che quindi è mancato nel caso di specie, come spesso negli ultimi anni sta accadendo nel nostro sistema, è stata l’adozione delle misure necessarie ed appropriate al fine di consentire ai minori di condurre una vita familiare normale all’interno della loro famiglia, invece di sopprimere direttamente il legame di filiazione e ciò, nonostante il perito avesse promosso un percorso di riavvicinamento tra i minori e i genitori perché a suo parere il legame esisteva, era saldo ed aveva valutato come positiva la loro capacità di esercitare il ruolo genitoriale. In tal senso la scelta dell’adozione non era stata concepita come si dovrebbe ovvero come l’extrema ratio a fronte di una situazione irrecuperabile.
Per la Corte la tutela della famiglia sancita dall’articolo 8 Cedu rappresenta un aspetto essenziale, in quanto, ha più volte ribadito nelle proprie pronunce “per un genitore e suo figlio, stare insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare” e che le misure che portano alla rottura del rapporto familiare possono essere applicate solo in via assolutamente eccezionale proprio perché l’articolo 8 contiene la prescrizione che lo Stato deve adottare le misure idonee a preservare il legame madre e figlio per quanto possibile ( Zhou c. Italia).
Nel caso di specie inoltre non vi erano situazioni di abuso, violenza o maltrattamento fisico o psichico a giustificare la misura di allontanamento e poi la dichiarazione di adottabilità, ma una situazione, come nel citato caso Zhou c. Italia, in cui lo stato doveva tentare di mantenere saldo il legame, mediante l’ausilio di un’assistenza sociale mirata.
In conclusione la Corte asserisce che le autorità italiane “prevedendo come unica soluzione la rottura del legame familiare, benchè nella fattispecie fossero praticabili altre soluzioni al fine di salvaguardare sia l’interesse dei minori che il legame familiare, non si sono adoperate in maniera adeguata e sufficiente per far rispettare il diritto della ricorrente a vivere con i figli e di conseguenza hanno violato il diritto di quest’ultima al rispetto della vita familiare, sancito dall’art. 8”.
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