Nel nostro Blog sono presenti altri contributi nei quali analizziamo i profili di responsabilità dell’Avvocato e ai quali si rimanda:
Perché un avvocato possa essere chiamato a risarcire un assistito per non aver svolto con diligenza la propria attività professionale in ambito giudiziario, non è sufficiente dimostrare l’inadempimento (e la violazione delle regole di corretta esecuzione del mandato).
È necessario, invece, provare l’effettivo danno subito dall’assistito e il collegamento causale con la condotta del legale.
Tuttavia, tale danno non coincide automaticamente con la perdita del diritto a partecipare a un processo (ad esempio, per la presentazione tardiva di un appello dichiarato poi inammissibile) o con una difesa inadeguata (come il mancato rilievo di un’eccezione di prescrizione): è indispensabile che l’errore dell’avvocato abbia influito negativamente sull’esito di un giudizio che, senza tale errore, avrebbe avuto esito favorevole per l’assistito.
Questo è il principio che la Cassazione ha ribadito in diverse recenti sentenze, tra cui l’ordinanza n. 25023 del 17 settembre 2024, che delinea i criteri per la responsabilità professionale dell’avvocato, chiarendo che la semplice perdita della possibilità di partecipare utilmente a un processo non costituisce di per sé un danno risarcibile. Al contrario, è necessario dimostrare, in via presuntiva e attraverso un’analisi prognostica, che vi fosse una ragionevole probabilità che l’azione legale, se proposta nei termini corretti e condotta con la dovuta attenzione, avrebbe avuto esito positivo, secondo la regola del “più probabile che non”.
Tale principio governa l’accertamento del nesso causale nei giudizi risarcitori, consentendo di considerarlo dimostrato quando, anche in assenza di certezze assolute, una determinata conseguenza dannosa può essere ritenuta legata a una causa con un grado di probabilità prevalente.
In questo contesto, la Cassazione (si vedano anche le ordinanze n. 21045 e n. 24670 del 2024) sottolinea che l’obbligazione dell’avvocato è generalmente un’obbligazione “di mezzi” e non “di risultato”, specialmente in ambito giudiziale.
Ciò significa che l’avvocato non si assume in alcun modo l’obbligo di garantire il conseguimento del risultato desiderato dall’assistito, ma quello di esercitare la propria attività con la massima diligenza, finalizzando comunque il proprio operato al raggiungimento di tale obiettivo.
Diversamente, nelle obbligazioni di risultato il danno può essere presunto già dall’inadempimento. Di conseguenza, la mancata presentazione di un appello, pur costituendo inadempimento, può dar luogo a risarcimento solo se l’impugnazione, se condotta correttamente, avrebbe ragionevolmente portato a un esito vittorioso.
Non è quindi accoglibile la richiesta risarcitoria di un assistito che non abbia dimostrato che la causa, non adeguatamente promossa o seguita dall’avvocato, avrebbe avuto esito favorevole se quest’ultimo avesse agito con la dovuta diligenza. Non rileva se la partecipazione al processo avrebbe potuto offrire all’assistito potenziali vantaggi, come la possibilità di accordi transattivi o di beneficiare di una difesa inadeguata della controparte, o di un possibile mutamento di giurisprudenza. Queste possibilità non costituiscono un interesse giuridicamente tutelabile.
Rimane comunque fermo il diritto dell’assistito di richiedere la risoluzione del contratto professionale e la restituzione degli onorari pagati all’avvocato inadempiente. La Corte, nel sostenere questa posizione, evidenzia come la giustizia non possa essere gravata da azioni legali infondate o, peggio, strumentali. Solo le pretese che, se correttamente perseguite, avrebbero potuto avere successo meritano tutela risarcitoria.
Questa visione appare molto rigida, quasi come se l’esito di un giudizio fosse sempre prevedibile con certezza. Tuttavia, la complessità di alcune questioni giuridiche può rendere difficile una previsione chiara.
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